Intervista a Kristine Maria Rapino
𝐋’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐯𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐌𝐚𝐫𝐭𝐞𝐝𝐢̀
𝗞𝗿𝗶𝘀𝘁𝗶𝗻𝗲 𝗠𝗮𝗿𝗶𝗮 𝗥𝗮𝗽𝗶𝗻𝗼
𝑎 𝑐𝑢𝑟𝑎 𝑑𝑖 𝑇𝑜𝑛𝑖 𝐹𝑎𝑔𝑛𝑎𝑛𝑖
• 𝐂𝐨𝐦𝐞 𝐞 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐞̀ 𝐧𝐚𝐭𝐚 𝐥’𝐢𝐝𝐞𝐚 𝐝𝐢 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐯𝐞𝐫𝐞 “𝐅𝐢𝐜𝐡𝐢 𝐝𝐢 𝐦𝐚𝐫𝐳𝐨”?
– L’idea di “Fichi di marzo” nasce in un periodo molto difficile della mia vita. Era il 2015 ed è stato un anno di particolari cambiamenti per me. Sono venuti a mancare nell’arco di pochi mesi entrambi i miei nonni materni, un punto di riferimento fondamentale della mia esistenza. Sempre in quei mesi, però, è accaduto un fatto bellissimo: è nata mia nipote. Sentimenti contrastanti, dunque, e per me inediti, ai quali dare un nome, una forma. Capire come rinascere da una situazione difficile, e non solo: occorreva trovare il frutto straordinario, inaspettato, proprio quando meno lo si aspetta, fuori stagione. Una sfida a tirare fuori il meglio di sé nei momenti in cui si è messi alla prova, e superarsi nelle proprie logiche e convinzioni. Da credente, posso dire che in questo mi è stato di grande aiuto un importante percorso di catechesi che ha sciolto ogni riserva e arricchito la mia percezione del mondo: il percorso “Le dieci parole”, ideato da don Fabio Rosini. In termini di trama, invece, è stata di grande ispirazione una Giornata di Primavera del FAI durante la quale ho avuto modo di visitare antichi mulini ad acqua del 1600 e un annesso pastificio.
• 𝐐𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐭𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝐡𝐚 𝐮𝐧 𝐩𝐫𝐞𝐜𝐢𝐬𝐨 𝐬𝐢𝐠𝐧𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚𝐭𝐨?
– Sì, certo. Va da sé che a marzo i fichi non sono di stagione. Fa riferimento a un episodio controverso del Vangelo, quello del fico seccato, o fico maledetto. Si narra infatti che Gesù, andando da Gerusalemme verso Betania, “ebbe fame”. Visto da lontano un albero di fichi che aveva foglie, ma non frutti, non essendo la stagione giusta, lo maledisse. La mattina seguente, in effetti l’albero si era seccato “fin dalle radici”. Una bella pretesa da parte sua, stava chiedendo l’impossibile e lo sapeva. Eppure Gesù forse ha fame proprio di quello, del nostro straordinario. È una chiamata a uscire dal nostro mondo ordinario. Una grande lezione di fede, di fiducia.
• 𝐂𝐨𝐦𝐞 𝐩𝐨𝐭𝐫𝐞𝐦𝐨 𝐝𝐞𝐟𝐢𝐧𝐢𝐫𝐞 𝐥𝐚 𝐟𝐚𝐦𝐢𝐠𝐥𝐢𝐚 𝐆𝐮𝐞𝐫𝐫𝐢𝐞𝐫𝐢 𝐜𝐨𝐧 𝐮𝐧 𝐩𝐚𝐝𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐬𝐢̀ 𝐚𝐮𝐭𝐨𝐫𝐢𝐭𝐚𝐫𝐢𝐨?
– Un modello patriarcale in via di evoluzione, come si vedrà. Le nuove generazioni, infatti, sono portatrici di altri valori pur conservando il rispetto dei ruoli tradizionali necessari, ma guardando a un modello domestico improntato alla corresponsabilità, alla condivisione delle speranze e delle aspettative, al rispetto delle libertà di tutti. I Guerrieri, a partire dal peso di una perdita, rinegozieranno insieme un nuovo significato come individui e come famiglia, riscoprendo l’importanza della reciprocità.
• 𝐄̀ 𝐪𝐮𝐚𝐬𝐢 𝐭𝐫𝐚𝐬𝐜𝐨𝐫𝐬𝐨 𝐮𝐧 𝐚𝐧𝐧𝐨 𝐝𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐮𝐛𝐛𝐥𝐢𝐜𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞. 𝐒𝐞𝐢 𝐬𝐨𝐝𝐝𝐢𝐬𝐟𝐚𝐭𝐭𝐚?
– Il 30 agosto 2022 usciva “Fichi di marzo”. Da allora, si sono susseguiti con una frequenza incredibile tanti appuntamenti che mi hanno permesso fino a oggi di viaggiare in tutta Italia e conoscere moltissime persone che porto nel cuore. In tutto sono state quarantanove presentazioni, online e in presenza, e alcune date saltate forse verranno recuperate in autunno. Una ricchezza sorprendente, un patrimonio di volti, di voci, che porterò a lungo con me.
• 𝐇𝐚𝐢 𝐭𝐨𝐜𝐜𝐚𝐭𝐨 𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐜𝐢𝐭𝐭𝐚̀ 𝐝’𝐈𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚 𝐩𝐞𝐫 𝐝𝐢𝐯𝐮𝐥𝐠𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐭𝐮𝐨 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨. 𝐂𝐨𝐦𝐞 𝐞 𝐝𝐚 𝐜𝐡𝐢 𝐯𝐞𝐧𝐠𝐨𝐧𝐨 𝐨𝐫𝐠𝐚𝐧𝐢𝐳𝐳𝐚𝐭𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐢 𝐞𝐯𝐞𝐧𝐭𝐢?
– L’ufficio stampa della mia casa editrice, la Sperling&Kupfer, si è sempre dimostrato solerte nell’organizzazione. Devo dire che molto ha funzionato anche il passaparola e l’entusiasmo dei librai, dei tanti gruppi di lettura. Fondamentale l’amicizia con alcuni autori e critici conosciuti nel corso degli anni che mi hanno dimostrato affetto e solidarietà, aiutandomi a muovere i primi passi come autrice. Sono molto grata a tutti.
• 𝐓𝐮, 𝐜𝐡𝐞 𝐡𝐚𝐢 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐞𝐧𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐭𝐚𝐧𝐭𝐢 𝐚𝐮𝐭𝐨𝐫𝐢, 𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐩𝐫𝐨𝐯𝐢 𝐚𝐝𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐞𝐢 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐞𝐧𝐭𝐚𝐭𝐚?
– In effetti, trovarmi dall’altra parte dopo tanti anni di lavoro come editor e insegnante di scrittura creativa è stata un’esperienza totalmente nuova e distante da ogni previsione. Sono una persona molto socievole, abituata a parlare in pubblico, eppure sembrerà strano, ma mantengo una certa timidezza che mi ha accompagnato durante l’adolescenza. Alle prime presentazioni ero emozionantissima. È mettersi a nudo, esporsi ai giudizi del lettore, ma anche una straordinaria opportunità per conoscersi meglio e individuare un rapporto tra ciò che hai scritto – e che pertanto già non ti appartiene più – e chi ti sta leggendo. Sono loro a farti scoprire parti di te che non conoscevi, perché quando si scrive non c’è sempre una precisa percezione di come quel testo, o quel passaggio, sarà interpretato. Di come sarà in grado di interpellare la coscienza di ognuno. Ed è questo lo straordinario della scrittura. Scrive Erri De Luca: “non c’è fortuna superiore a questa per chi scrive, né più ambizioso augurio: che vadano dentro il fitto di mischia delle vite altrui.”
• 𝐐𝐮𝐚𝐧𝐭𝐨 𝐞̀ 𝐢𝐦𝐩𝐨𝐫𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐭𝐞 𝐥𝐚 𝐟𝐞𝐝𝐞?
– La fede per me è tutto. Niente di quello che sono, o che scrivo, sarebbe lo stesso se non ci fosse la presenza costante del richiamo a Dio. Non è necessario che sia immediatamente percepibile nel testo, non è a quel tipo di narrativa che aspiro, ma è senza dubbio una realtà inscindibile da me in quanto donna, e anche in quanto autrice.
• 𝐋𝐚 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐝𝐢 𝐭𝐮𝐨 𝐩𝐚𝐝𝐫𝐞, 𝐬𝐭𝐢𝐦𝐚𝐭𝐨 𝐩𝐨𝐞𝐭𝐚, 𝐡𝐚 𝐢𝐧𝐟𝐥𝐮𝐢𝐭𝐨 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐚 𝐭𝐮𝐚 𝐜𝐫𝐞𝐬𝐜𝐢𝐭𝐚 𝐥𝐞𝐭𝐭𝐞𝐫𝐚𝐫𝐢𝐚?
– Sicuramente ha influito molto. Mio padre mi ha sempre letto le sue poesie, impreziosendo momenti domestici che nel corso del tempo sono diventati un rituale, ancora oggi: la mattina a colazione, spesso si presenta con un nuovo componimento elaborato durante la notte. Lo legge ad alta voce, attende commenti e suggestioni. La gioia della condivisione del suo sguardo pulito e leggero mi ha spinto a cercare anche il mio, declinato in forme diverse.
• 𝐏𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐡𝐚𝐢 𝐮𝐧 𝐫𝐚𝐩𝐩𝐨𝐫𝐭𝐨 𝐟𝐚𝐦𝐢𝐥𝐢𝐚𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐧 𝐢 𝐆𝐞𝐥𝐚𝐭𝐢 𝐋𝐞𝐭𝐭𝐞𝐫𝐚𝐫𝐢?
– Tra le mie prime collaborazioni come editor c’è stata quella con l’editore Marco Solfanelli, che stimo molto come persona e come professionista. È stato lui a farmi conoscere questo interessante contesto divulgativo, nel quale spesso sono stata presente in qualità di moderatrice. In seguito, è diventato un appuntamento quasi di famiglia. Lì ha presentato più volte anche mio padre le sue raccolte, nonché la persona che poi sarebbe diventata mio marito. Di questa rassegna apprezzo proprio l’approccio democratico alla cultura, il clima informale che si respira. Un cenacolo.
• 𝐃𝐞𝐟𝐢𝐧𝐢𝐬𝐜𝐢 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧𝐞 𝐢 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧𝐚𝐠𝐠𝐢 𝐝𝐞𝐥 𝐭𝐮𝐨 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨, 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́?
– Come dico spesso ai miei allievi della scuola di scrittura, con i “personaggi” ci si fa ben poco se non c’è profondità, se manca la tridimensionalità. Nella vita di tutti i giorni non incontriamo personaggi ma “persone”, con aspetti caratteriali spesso contrastanti e difficilmente catalogabili. Non siamo solo buoni o cattivi, intelligenti o stupidi, arroganti o umili, ma agiamo a seconda delle circostanze, spinti da diversi impulsi. Per scrivere non esiste migliore scuola di scrittura dell’osservazione.
• 𝐐𝐮𝐚𝐥 𝐞̀ 𝐢𝐥 𝐥𝐞𝐠𝐚𝐦𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐭𝐢 𝐮𝐧𝐢𝐬𝐜𝐞 𝐚𝐝 𝐞𝐬𝐬𝐞?
– persone/personaggi è quasi sempre intimo, complementare, sperimentale, per quanto non sia frutto necessariamente di esperienze autobiografiche. È un’apertura alla realtà percettiva di qualcun altro, una sfida anche per se stessi, per aprirsi a chi si ha accanto in maniera più autentica e scevra da pregiudizi.
• 𝐂𝐡𝐞 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐧𝐝𝐢 𝐪𝐮𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐚𝐟𝐟𝐞𝐫𝐦𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐞̀ 𝐢𝐦𝐩𝐨𝐫𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐚𝐯𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐧𝐚 𝐯𝐢𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐧𝐚 𝐞𝐝 𝐞𝐬𝐭𝐞𝐫𝐧𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧𝐞?
– Conservare uno sguardo esterno può servire a valutare in che condizioni si mette in atto un determinato comportamento, che magari in altre circostanze non avremmo adoperato. Ma senza uno sguardo interno su quella persona che ne rintracci il movente, le aspirazioni e le debolezze, le ferite che si porta dentro, non saremmo comunque in grado di capire cosa lo ha mosso, ma solo di giudicare.
• 𝐓𝐫𝐚 𝐢 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐨𝐧𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐟𝐚𝐦𝐢𝐠𝐥𝐢𝐚 𝐆𝐮𝐞𝐫𝐫𝐢𝐞𝐫𝐢 𝐜’𝐞̀ 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐳𝐢𝐚 𝐒𝐚𝐛𝐛𝐢𝐚. 𝐂𝐞 𝐧𝐞 𝐩𝐮𝐨𝐢 𝐩𝐚𝐫𝐥𝐚𝐫𝐞?
– Zia Sabbia è una donna d’altri tempi, in tutti i sensi: si esprime solo in dialetto, attribuisce grande importanza alla cucina e agli aspetti puramente pratici dell’esistenza, ha un legame viscerale con la famiglia e con le mura domestiche. Spetta a lei fare in modo che i nipoti non dimentichino la bellezza e l’importanza delle tradizioni del territorio, gastronomiche e non, senza le quali è impossibile costruire un futuro su basi solide. Proprio nell’incontro tra tradizione e innovazione c’è la speranza di conservare il nostro valore identitario e le nostre radici.
• 𝐐𝐮𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐯𝐨 𝐒𝐚́𝐧𝐝𝐨𝐫 𝐌𝐚́𝐫𝐚𝐢
𝐞 𝐂𝐢𝐭𝐭𝐚̀ 𝐝𝐢 𝐂𝐨𝐦𝐨 𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐭𝐢 𝐫𝐢𝐜𝐨𝐫𝐝𝐚?
– Sono premi importanti ai quali devo molto, in particolare il Sándor Márai. Lì ho conosciuto un autore che ha influito tantissimo nella mia crescita personale, spronandomi quando ne avevo bisogno: Maurizio De Giovanni. Per scrivere è necessaria tanta perseveranza, è una palestra quotidiana estenuante, una strada non esente da momenti di scoraggiamento e porte chiuse. La mia gavetta è stata lunga, e anche adesso non è terminata, ma posso dire di aver avuto la fortuna di incontrare al momento giusto persone che mi hanno esortato a non mollare, ad andare avanti. I tanti concorsi a cui ho partecipato dall’età di tredici anni sono stati una scuola fondamentale.
• 𝐂𝐡𝐢 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐓𝐨𝐦𝐦𝐲 𝐞 𝐅𝐞𝐥𝐥𝐢𝐧𝐢?
– Big, Tommy e Fellini sono i miei cani, che amo profondamente. Viviamo in simbiosi, soprattutto adesso che sono molto anziani e hanno diverse patologie. Uno di loro, Big, da ormai un anno è paralizzato agli arti inferiori e si muove solo con il carrellino, ora anche con qualche difficoltà. Tommy è oncologico. Mi stanno insegnando molto, e perfino in queste condizioni sono in grado di donarsi molto di più di quanto possa fare io con loro. Sono una ricchezza inestimabile della mia vita.
• 𝐀 𝐜𝐡𝐢 𝐝𝐞𝐝𝐢𝐜𝐡𝐢 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐯𝐢𝐬𝐭𝐚?
– Alla mia famiglia, da sempre il mio centro.