Intervista a Pierfranco Bruni
𝐋’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐯𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐌𝐚𝐫𝐭𝐞𝐝𝐢̀
𝗣𝗶𝗲𝗿𝗳𝗿𝗮𝗻𝗰𝗼 𝗕𝗿𝘂𝗻𝗶
𝑑𝑖 𝑇𝑜𝑛𝑖 𝐹𝑎𝑔𝑛𝑎𝑛𝑖
• 𝐈𝐥 𝐬𝐮𝐜𝐜𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐝𝐞𝐢 𝐬𝐮𝐨𝐢 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐢 𝐝𝐢𝐩𝐞𝐧𝐝𝐞 𝐝𝐚𝐥 𝐟𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐞𝐢 𝐞̀ 𝐮𝐧𝐨 “𝐬𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐥𝐞𝐬𝐬𝐨” 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐩𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐯𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐨𝐜𝐨𝐫𝐫𝐞𝐧𝐭𝐞?
– Non saprei se la mia scrittura è complessa. O sono uno scrittore complesso. Scrivo per non compiacere. Perché ho un bisogno spirituale ed estetico di scrivere ciò che abito, vivo, mi vive. Bisogna sempre scrivere di ciò che si conosce anche se si rischia di essere ripetitivi. Ripetere aiuta altri modelli di scrittura. Non essere nella “folla” porta, a volte, ad essere controcorrente. D’altronde amo la solitudine.
• 𝐄̀ 𝐯𝐞𝐫𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐚 𝐬𝐮𝐚 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚 𝐩𝐮𝐛𝐛𝐥𝐢𝐜𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐞̀ 𝐬𝐭𝐚𝐭𝐚 𝐮𝐧 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨 𝐝𝐢 𝐩𝐨𝐞𝐬𝐢𝐞?
– Il mio primo è stato un piccolo libro di poesie pubblicato nel 1975 dal titolo “Ritagli di tempo”. Mi auguro di ripubblicarlo in una plaquette anche se sono passati molti anni. Ero un ragazzo che si apriva al mondo.
• 𝐐𝐮𝐢𝐧𝐝𝐢 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚 𝐩𝐨𝐞𝐭𝐚 𝐞 𝐩𝐨𝐢 𝐟𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐨. 𝐌𝐚 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐥𝐚 𝐟𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐢𝐚 𝐜𝐫𝐞𝐚𝐫𝐞 𝐞𝐦𝐨𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐥𝐚 𝐩𝐨𝐞𝐬𝐢𝐚?
– La poesia è stata ed è tuttora importante. Leggo la vita sempre con un immaginario poetico nel quale l’esistenza trova il suo senso e quella metafora di orizzonti che sono parte integranti del mio essere. Non credo che ci sia, nella mia lettura, una distanza notevole tra poesia e filosofia. Allievo della filosofa Maria Zambrano ho sempre considerato l’incontro tra poesia e filosofia una metafisica dell’anima. Creare e pensare il pensiero sono metafore della scrittura.
• 𝐀 𝐯𝐨𝐥𝐭𝐞 𝐦𝐢 𝐬𝐞𝐦𝐛𝐫𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐞𝐢 𝐯𝐨𝐠𝐥𝐢𝐚 𝐚𝐬𝐬𝐮𝐦𝐞 𝐥𝐞 𝐬𝐞𝐦𝐛𝐢𝐚𝐧𝐳𝐞 𝐝𝐢 𝐮𝐧 𝐧𝐚𝐫𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐦𝐨𝐫𝐚𝐥𝐢𝐬𝐭𝐚, 𝐦𝐢 𝐬𝐛𝐚𝐠𝐥𝐢𝐨?
– No. Non sono uno scrittore moralista. Almeno credo e spero. Lo scrittore deve mettersi in gioco con il mistero, la magia, il tempo. Forse anche per questo cerco di legare il pensiero alla creatività, ovvero la filosofia alla poesia.
• 𝐄𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞 𝐢𝐧 𝐥𝐞𝐢 𝐮𝐧 𝐩𝐮𝐧𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐢𝐧𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐨 𝐟𝐫𝐚 𝐚𝐜𝐮𝐦𝐞 𝐞 𝐚𝐦𝐚𝐫𝐞𝐳𝐳𝐚?
– Sono parti integranti della vita. Credo nell’intelligenza e nel cuore. Ma l’amarezza non mi interessa. È già un sentiero da scontare. Sono convinto che la solitudine è una bellezza che supera il peggiore e il pessimo degli uomini.
• 𝐏𝐮𝐨̀ 𝐬𝐩𝐢𝐞𝐠𝐚𝐫𝐞 𝐥’𝐈𝐦𝐩𝐨𝐬𝐬𝐢𝐛𝐢𝐥𝐞 𝐏𝐢𝐞𝐭𝐚̀ 𝐝𝐢 𝐃𝐚𝐧𝐭𝐞?
– Dante non può permettersi la pietà nel momento in cui si accetta come eretico. L’uomo e il poeta sono navigatori dell’assurdo. L’assurdo non può scivolare nella pietà salvifica, ma nella salvezza redentrice. La Salvezza supera il possibile nel momento cui la pietà di dissolve nella carità. Dante è fortemente cristiano nella Luce, quindi è salvifico perché la metafora delle stelle è il superamento della foresta. La pietà non aiuta. La Luce come Redenzione sì.
• 𝐏𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐝𝐞𝐟𝐢𝐧𝐢𝐬𝐜𝐞 𝐓𝐚𝐫𝐚𝐧𝐭𝐨 “𝐂𝐢𝐭𝐭𝐚̀ 𝐃𝐞𝐬𝐭𝐢𝐧𝐨” 𝐞 𝐪𝐮𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐜𝐢 𝐭𝐨𝐫𝐧𝐚 𝐝𝐢𝐯𝐞𝐧𝐭𝐚 𝐮𝐧 𝐩𝐞𝐥𝐥𝐞𝐠𝐫𝐢𝐧𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨?
– L’ho raccontato di recente in un mio breve saggio pubblicato su diverse testate e sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”. Da ragazzino i miei genitori dalla Calabria mi portavano spesso a Taranto per una cena o festeggiare qualche occasione. Trascorrevamo le estati al mare di Trebisacce. Tre mesi all’anno. Il destino. Io credo molto nel destino pur in un intreccio con la profezia. È stato così. La prima gita scolastica, frequentavo la terza media, se ricordo bene, mi condusse a visitare il museo di Taranto e a trascorrere due giornate nella citta dei Due Mari. A 18 anni con un gruppo di amici decidemmo, non so perché, a festeggiare la “promozione” per la patente di guida a Taranto. Quindi il mio primo viaggio da patentato. 1973. La prima fidanzatina di un mio carissimo amico era di Taranto e spesso andammo a Taranto a fare baldorie. Feci un concorso come assistente archeologo dopo la laurea e non per scelta mi inviarono a Taranto. Città che doveva essere di passaggio. Ma non chiesi mai il trasferimento. A Taranto fui nominato per quattro anni addirittura vice presidente della Provincia come tecnico… Insomma mi dovrò decidere prima o poi a scrivere in modo narrante questo mio percorso in terra di Magna Grecia tarantina…
• 𝐼𝑙 𝑟𝑖𝑐𝑜𝑟𝑑𝑎𝑟𝑒 𝑒̀ 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑖𝑡𝑎 𝑒 𝑟𝑖𝑡𝑜𝑟𝑛𝑎 𝑎𝑑 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎. 𝐏𝐮𝐨̀ 𝐬𝐩𝐢𝐞𝐠𝐚𝐫𝐜𝐢 𝐦𝐞𝐠𝐥𝐢𝐨 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐜𝐨𝐧𝐜𝐞𝐭𝐭𝐨?
– Ricordare non è solo vita passata. È quella vita che si abita nel cuore. Quindi è una vita infinita. Il ricordo è un viaggio in ciò che si è stati. Io vivo di ricordi che non mi portano mai al rimpianto. Mi portano a non dimenticare. Il ricordo è un dono. Non ci dà la possibilità di dimenticare, di sradicarsi dal tempo, di entrare in una antropologia del proprio esistere.
𝟗) 𝐐𝐮𝐚𝐥 𝐞̀ 𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐚𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐭𝐫𝐚 𝐅𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐢𝐚 𝐞 𝐃𝐢𝐬𝐬𝐨𝐥𝐯𝐞𝐧𝐳𝐚?
– Nella vita tutto corre il rischio di dissolversi se non si ha la forza di rendere la vita stessa pensiero. Il pensiero non si dissolve. Il resto sì. Il pensiero si tramanda. Anche quando non ci saremo più quella ontologia del pensare resta in quell’altro che ti sta accanto o dentro ed è riuscito a catturare l’anima del pensiero stesso.
𝟏𝟎) 𝐒𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐨 𝐥𝐞𝐢 𝐢𝐥 𝐍𝐨𝐯𝐞𝐜𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐧𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐚𝐧𝐜𝐨𝐫𝐚 𝐩𝐫𝐨𝐧𝐭𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐫𝐞 𝐥𝐚 𝐬𝐮𝐚 𝐞𝐫𝐞𝐝𝐢𝐭𝐚̀ 𝐚𝐥𝐥’𝐞𝐩𝐨𝐜𝐚 𝐬𝐮𝐜𝐜𝐞𝐬𝐬𝐢𝐯𝐚. 𝐏𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́?
– Nonostante la cosiddetta intelligenza artificiale viviamo, o vivo, dentro il passaggio del Novecento verso… Sul piano propriamente filosofico e letterario viviamo ancora di eredità. Non possono nascondersi. Io sono figlio e resto figlio del Novecento nonostante le rivoluzioni dei nuovi saperi. Perché? Il Secolo post Novecento non ha offerto ancora alcuna possibilità all’impossibile.
𝟏𝟏) 𝐂𝐨𝐦𝐞 𝐞 𝐪𝐮𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐥𝐚 𝐟𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐢𝐚 𝐞𝐧𝐭𝐫𝐚 𝐢𝐧 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐚𝐬𝐭𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐥𝐚 𝐟𝐞𝐝𝐞?
– Pascal ha detto tanto e Kierkegaard ha definito. Non si pensa con la Ragione o non si pensa con la Ragione soltanto. Ma è il cuore che offre il senso e l’orizzonte alla filosofia. La Fede è affidarsi non ragionare. Si è cercata la materialità delle cose. Ma la fede non ha bisogno sia della materialità che delle cose. Ha bisogno di Profezia e Provvidenza. Non vedo un contrasto. Ma due strade che cercano di incontrarsi e si incontreranno quando la ragione smetterà di considerarsi Verità.
𝟏𝟐) 𝐋𝐚 𝐜𝐫𝐢𝐬𝐭𝐢𝐚𝐧𝐢𝐭𝐚̀ 𝐚𝐭𝐭𝐫𝐚𝐞 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐫𝐞 𝐦𝐞𝐧𝐨 𝐯𝐨𝐜𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢, 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐚𝐯𝐯𝐢𝐞𝐧𝐞?
– Bella domanda. La fede non dà certezze immediate e non dà sicurezze materiali. Ma propone vocazione, contemplazione, mistero. Occorrono tempi non corti. Questa epoca brucia l’stante. Ma direi che non si tratta, credo, di cristianità in sé. Ma di religiosità. La cristianità è un affidarsi privato e non popolare. La religiosità è una manifestazione popolare, direi antropologica e non ontologica e metafisica. Per Hegel Dio è morto. Discorso ripreso da Nietzsche. È morto filosoficamente nella ideologia del pensiero secondo Hegel e diventa fenomenologia. Per me no. Per noi no. Cristo è un ecce homo che non muore perché è dentro la spiritualità di quell’uomo che considerano finito come corpo. Ma l’uomo è anima, spirito, se su vuole metafisica dell’essere.
𝟏𝟑) 𝐋𝐞𝐢 𝐡𝐚 𝐚𝐟𝐟𝐞𝐫𝐦𝐚𝐭𝐨:”𝐿𝑎 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑟𝑢𝑠𝑠𝑎 ℎ𝑎 𝑖𝑙 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑖𝑠𝑚𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝑖𝑛𝑞𝑢𝑖𝑒𝑡𝑜 𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑟𝑒, 𝑢𝑛𝑎 𝑖𝑛𝑞𝑢𝑖𝑒𝑡𝑢𝑑𝑖𝑛𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑟𝑎𝑣𝑜𝑙𝑔𝑒 𝑡𝑟𝑎 𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑒 𝑙𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑒𝑚𝑝𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒” . 𝐂𝐢 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐟𝐚𝐫𝐞 𝐮𝐧 𝐞𝐬𝐞𝐦𝐩𝐢𝐨?
– La letteratura russa è l’essere dell’ortodossia. È la cristianità del Cristo che ritorna in una piazza di Siviglia e lo si vuole processare. Ma l’immaterialità e l’infinitezza non possono essere processati altrimenti scivola tutto nel sottosuolo. Il mio Dostoewskii è qui che ci affida il destino profetico dei popoli.
𝟏𝟒) 𝐀𝐥𝐞𝐤𝐬𝐚𝐧𝐝𝐫 𝐒𝐞𝐫𝐠𝐞𝐞𝐯𝐢𝐜̌ 𝐏𝐮𝐬̌𝐤𝐢𝐧 𝐫𝐢𝐞𝐧𝐭𝐫𝐚 𝐭𝐫𝐚 𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐮𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐫𝐮𝐬𝐬𝐢 𝑑𝑒𝑙𝑙’𝑖𝑛𝑞𝑢𝑖𝑒𝑡𝑜 𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑟𝑒?
– L’ironia è sempre inquieta. Puskin è uno di quei poeti che ha tratteggiato nel dolore l’ironia della inquietudine teatralizzandola. Sembra giocoso ma, per dirla con Pirandello, è un mal giocoso.
𝟏𝟓) 𝐏𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐥𝐚 𝐭𝐫𝐚𝐝𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐞̀ 𝐜𝐨𝐬𝐢̀ 𝐢𝐦𝐩𝐨𝐫𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐧𝐞𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐢𝐞𝐫𝐨 𝐟𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐢𝐜𝐨?
– Perché ho bisogno di eredità e di radicamenti. La tradizione mi permette di navigare tra un Occidente sradicante e un Oriente dubbioso. Soltanto in quel Mediterraneo greco – latino è possibile rileggere l’Occidente. Così gli Orienti sono dentro le civiltà dei sufi dei derrvishi e di una Persia che abbiamo dimenticato. Il Cantico dei Cantici è un perno centrale. Così come è un perno centrale Ovidio e il suo esilio. Roma crolla nel momento in cui dimentica le sue eredità e cerca di superale con a sibaritide visione di una aristocrazia senza nobiltà. La Tradizione è ancora una volta non dimenticare e portare la memoria come un canto sciamano che traccia le strade da percorrere.
𝟏𝟔) 𝐂𝐢 𝐝𝐢𝐜𝐞 𝐢𝐥 𝐦𝐨𝐭𝐢𝐯𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐥’𝐡𝐚 𝐬𝐩𝐢𝐧𝐭𝐚 𝐚 𝐝𝐞𝐝𝐢𝐜𝐚𝐫𝐞 𝐮𝐧 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨 𝐚 𝐩𝐚𝐩𝐚 𝐁𝐞𝐧𝐞𝐝𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐗𝐕𝐈?
– Per lo stesso motivo di portare a riflettere sulla Tradizione. La Chiesa è Tradizione. Benedetto XVI è stato quel passaggio compiuto che ci ha ricondotto a San Paolo. La Chiesa che è stata paolina per secoli aveva trovato in Benedetto il legame tra la Cristianità e il cristocentrismo oltre il Concilio Vaticano II. Poi perché Benedetto dopo Sant’Agostino è il filosofo che ci parla di Paolo senza contraddizioni. Un dato che continua ad interessarmi e ad affascinarmi. C’è un punto oggi da chiarire. In una Chiesa che chiede di essere attiva nel pensiero moderno ha ancora senso leggere Paolo, le Lettere di Paolo, nella Santa Messa? Un interrogativo sul quale continuo a riflettere. La Tradizione è anche cercare di non perdere ciò. E Benedetto mi ha interrogato anche su questo.
𝟏𝟕) 𝐈𝐧 𝐨𝐜𝐜𝐚𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐢 𝟏𝟓𝟎 𝐚𝐧𝐧𝐢 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐜𝐨𝐦𝐩𝐚𝐫𝐬𝐚 𝐝𝐢 𝐌𝐚𝐧𝐳𝐨𝐧𝐢, 𝐥’𝐞𝐝𝐢𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐒𝐨𝐥𝐟𝐚𝐧𝐞𝐥𝐥𝐢 𝐡𝐚 𝐩𝐮𝐛𝐛𝐥𝐢𝐜𝐚𝐭𝐨 𝐮𝐧 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨 𝐢𝐧 𝐜𝐮𝐢 𝐥𝐞𝐢 𝐚𝐟𝐟𝐞𝐫𝐦𝐚: “𝑠𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑖𝑛𝑢𝑎 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑠𝑢 𝑢𝑛 𝑀𝑎𝑛𝑧𝑜𝑛𝑖 𝑜𝑙𝑡𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑚𝑎𝑛𝑧𝑜𝑛𝑖𝑎𝑛𝑜 𝑚𝑎𝑛𝑧𝑜𝑛𝑖𝑠𝑚𝑜”. 𝐂𝐢 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐬𝐩𝐢𝐞𝐠𝐚𝐫𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐧𝐝𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐦𝐚𝐧𝐳𝐨𝐧𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐦𝐚𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢𝐬𝐦𝐨?
– Manzoni è stato letto male nel corso del tardo Ottocento e Novecento. Ha avuto una lettura scolastica o pesantemente accademica. Ma il vero Manzoni è nella bellezza della conversione e non nel proporre uno scrittore come autore di un romanzo storico. I Promessi Sposi è il romanzo della Redenzione, della Conversione, della Confessione. Il centro non è Don Abbondio o il matrimonio. È il Cardinale con l’Innominato. È il romanzo del Bene sul Male ammettendo la presenza del Male. La storia è presente come in molti romanzi di quell’epoca ma anche del Novecento. Il laicismo ha imposto la sua lettura. La critica storicista peggio. Ma non bisogna leggere soltanto il romanzo per comprendere la metafisica manzoniana. La sua scelta filosofica è fondamentale, proprio nei saggi filosofici, per entrare nel linguaggio del Cardinale Borromeo e nella confessione dell’Innominato. Si è andati avanti per slogan. Manzoni ha creato il primo romanzo filosofico cristiano la cui cristianità non è serenità ma inquietudine e senso tragico. Le tragedie di Manzoni sono dentro il romanzo. La Monaca di Monza è un personaggio tragico non solo l’espressione del male. Lo stesso Rodrigo è il male perché l’inquieto. Invece si sono raccontate le storielle.
𝟏𝟖) 𝐂’𝐞̀ 𝐮𝐧 𝐦𝐨𝐭𝐢𝐯𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐜𝐮𝐢 𝐨𝐠𝐠𝐢 𝐬𝐢 𝐭𝐞𝐧𝐝𝐞 𝐚 𝐦𝐢𝐧𝐢𝐦𝐢𝐳𝐳𝐚𝐫𝐞 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐨?
– La leggerezza e il relativismo sono elementi diseducativi. Con questo non vorrei ritornare allo scrittore di una morale o moralista. Assolutamente no. La superficialità nasce dalla transizione oggi dei mezzi di comunicazione. Tutto possibile tutto immediato. Non è così. Ecco perché nascono le nuove depressioni, i nuovi sensi di panico nelle generazioni giovanili. L’aumento dei psicofarmaci nei giovani nasce dalle delusioni del tutto possibile che diventa impraticabile o dell’immediato che non esiste. La leggerezza e il relativismo nascono da una letteratura ideologizzata che ha tentato di seppellire la profondità e il ragionamento, non la ragione, sui fatti. I fatti e non le cose. Non esiste nel cuore la cosa. Esiste il sentimento.
𝟏𝟗) 𝐀 𝐜𝐡𝐢 𝐝𝐞𝐝𝐢𝐜𝐚 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐯𝐢𝐬𝐭𝐚?
– A Rebecca. La mia nipotina di tre anni e mezzo che spesso mi chiede “Nonno che fai perché leggi e non giochi con me?”. Una bella domanda. La madre mi chiedeva: “Pa’ pecchè scrivi sempre…”. Sono passati tanti anni. Rebecca è la continuità della madre. A lei che si è impossessata dei miei libri e mi scrive lettere, pensando realmente di scrivere… Affinchè possa capire… ciò che porto dentro.
Pierfranco Bruni