Intervista a Luigi De Rosa
𝐋’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐯𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐌𝐚𝐫𝐭𝐞𝐝𝐢̀
𝗟𝘂𝗶𝗴𝗶 𝗗𝗲 𝗥𝗼𝘀𝗮
𝑎 𝑐𝑢𝑟𝑎 𝑑𝑖 𝑇𝑜𝑛𝑖 𝐹𝑎𝑔𝑛𝑎𝑛𝑖
• 𝐋𝐞𝐢 𝐯𝐢𝐚𝐠𝐠𝐢𝐚 𝐜𝐨𝐬𝐢̀ 𝐭𝐚𝐧𝐭𝐨 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐞̀ 𝐮𝐧 𝐦𝐚𝐫𝐢𝐧𝐚𝐢𝐨?
– Ci sono state e ci sono le circostanze, antiche e nuove. Adesso sono le esigenze familiari. Molto anni fa furono gli obblighi del lavoro. Entrai in marina diciassettenne, nel 1964. Il richiamo del mare, la voglia di conoscere posti nuovi, il bisogno di essere indipendente, di non gravare sulla famiglia, poiché vi erano stati dei dissesti finanziari, furono i motivi principali. Poi, dopo sette anni di marina militare, passai nell’aviazione commerciale. Spostamenti più rapidi, una paga migliore e maggior tempo in famiglia. Riconosco di essere un soggetto irrequieto.
• 𝐃𝐨𝐯𝐞 𝐬𝐢 𝐭𝐫𝐨𝐯𝐚 𝐢𝐧 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐦𝐨𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐦𝐨𝐭𝐢𝐯𝐨 ?
– In Colombia. Nella città di Villavicencio, capitale del dipartimento del Meta, la cui economia si basa su petrolio, agricoltura, allevamento e pesca fluviale. A 100 km da Bogotà. Nel centro della nazione, dove sfuma la cordigliera e inizia la vasta pianura orientale che termina all’incontro della foresta amazzonica. Mia moglie è italo-colombiana. Il padre emigrò ventenne da Mantova nel 1932. Qui lavorò in diverse città. Infine giunse e si adattò a Villavicencio con la moglie e molti figli. 14, di cui 11 maschi e 3 femmine. Il numero dei nipoti, ormai grandi e sposati, supera la cinquantina. Adesso ci sono i nipotini e questo ci impone, a mia moglie e a me, di trascorrere molti mesi ogni anno da queste parti.
• 𝐈𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨 “𝐏𝐥𝐢𝐧𝐢𝐨 𝐈𝐥 𝐆𝐢𝐨𝐯𝐚𝐧𝐞” 𝐞̀ 𝐚𝐟𝐟𝐚𝐬𝐜𝐢𝐧𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐝𝐢𝐦𝐨𝐬𝐭𝐫𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐞 𝐟𝐚𝐧𝐭𝐚𝐬𝐢𝐚 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐜𝐨𝐧𝐯𝐢𝐯𝐞𝐫𝐞. 𝐌𝐚 𝐢𝐧 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐦𝐨𝐝𝐨 𝐧𝐨𝐧 𝐜𝐫𝐞𝐝𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐢 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐚 𝐝𝐢𝐬𝐭𝐨𝐫𝐜𝐞𝐫𝐞 𝐥𝐚 𝐯𝐞𝐫𝐢𝐭𝐚̀?
– Preciso che ho svolto una lunga ricerca storica prima di iniziare a scrivere il romanzo. Vorrei dire come e perché scelsi Plinio il Giovane e non il Vecchio. Inizialmente il romanzo aveva come protagonista Plinio il Vecchio, padre adottivo di Cecilio. Ma si verificò un fatto. Più cercavo notizie sull’ammiraglio capo della Classis Misenesis, più risaltava la figura del figliastro. Due uomini sorprendenti. Rilessi le lettere di Plinio il Giovane. Sono una miniera di note, impressioni, disposizioni e dati del primo secolo dopo Cristo. Decisi di adottare per il tessuto del romanzo la tecnica della Chronica e delle Epistolae. E adesso veniamo alla tema della verità, L’eruzione del Vesuvio è narrata da Cecilio. Ho creato di mio il viaggio da Miseno a Pompei intrapreso dall’ammiraglio per portare aiuto ai suoi amici e ho montato il funerale dell’ammiraglio morto sulla spiaggia di Pomponiano, dove erano bloccate le liburne di Miseno per i venti contrari richiamati dal calore dell’eruzione. Le lettere messe nel romanzo, immaginate e scritte da me, all’imperatore Tito e all’amico Semplicio, hanno un fondo di verità e le ho adattate per la costruzione della fabula, e dare nuova voce a Cecilio e perciò si possono considerare false fino a un certo punto. Ricopiandole pari pari sarei stato accusato di plagio. Le lettere originali fanno parte della raccolta giunta fino a noi. Le ho studiate una per una, parola per parola, immaginando il carattere di Cecilio. Amava la moglie, rispettava gli amici, non tollerava la corruzione, cercava la giustizia attraverso la verità, gratificava i suoi soldati. Era saggio, giusto, generoso, ironico. Tutto scritto nelle lettere, quelle originali, di Cecilio. Sapeva come addolcire la suocera, Celerina; come insinuare nella testa dell’imperatore che qualcosa andava fatto per rimettere certi valori al loro posto. Allievo di Quintiliano, e educato dal vecchio Plinio, non poteva avere carattere diverso. Che altro mi fece decidere di porre come personaggio principale del romanzo Cecilio e non l’ammiraglio? Il previlegiare la verità, e non la menzogna: Auctoritas cara al console, prima di Siria, poi di Bitinia. Da Amastri in Bitinia nell’anno 100 scrisse la lettera a Traiano.
• 𝐐𝐮𝐚𝐥 𝐞̀ 𝐢𝐥 𝐦𝐨𝐭𝐢𝐯𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐥’𝐡𝐚 𝐬𝐩𝐢𝐧𝐭𝐚 𝐚𝐝 𝐢𝐦𝐦𝐚𝐠𝐢𝐧𝐚𝐫𝐞 𝐏𝐥𝐢𝐧𝐢𝐨 𝐭𝐨𝐥𝐥𝐞𝐫𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐯𝐞𝐫𝐬𝐨 𝐢 𝐜𝐫𝐢𝐬𝐭𝐢𝐚𝐧𝐢 𝐞 𝐜𝐨𝐧𝐯𝐢𝐧𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐥𝐨𝐫𝐨 𝐢𝐧𝐧𝐨𝐜𝐮𝐢𝐭𝐚̀?
– Domiziano era morto, succeduto da Nerva che a Roma sospese la persecuzione dei cristiani. Tutto però a voce. Nessun proclama scritto. Tacito, nel 110, scrisse che Nerone forse la cominciò, forse per proprio conto, ma che non vi era una politica ufficiale da porre in relazione ai cristiani. Domiziano aveva ordinato la condanna dei cristiani che non lo adorassero come dio. Ma cosa accadeva in Bitinia e in Siria? I governatori locali, avidi e corrotti, usando a loro vantaggio i vecchi ordini di Domiziano, sequestravano i beni dei cristiani e, per impossessarsene, li condannavano a morte senza processo. Cecilio, in qualità di giudice, non tollerava l’arbitrio. Morto Nerva, scrisse all’imperatore Traiano. Il desiderio di giustizia gli dette il coraggio per sollecitare il capo dell’impero a mettere nero su bianco. Traiano rispose per iscritto e gli dette ragione. In questo ravviso la grande forza di Cecilio. Provocò lo scontro tra il potere dei governanti e il suo potere giuridico e per amore della verità. Nell’intera narrazione ho suggerito l’importanza della verità, anche se il testo si accompagna con la fantasia, come del resto la maggior parte dei romanzi storici. Domanda: Plinio fece apologia del cristianesimo? Forse sì. Aveva amici cristiani. Salvarli in un impero corrotto e attaccato da barbari da più parti non poteva nuocere più di tanto. Forse colse la naturalezza della verità che animava i cristiani. Forse previde l’inevitabilità dei tempi. Non si sa dove morì Plinio il Giovane. In Siria? In Bitinia? Conoscendone la tomba gli porterei dei fiori.
• 𝐂𝐡𝐞 𝐝𝐢𝐟𝐟𝐞𝐫𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐜’𝐞̀ 𝐭𝐫𝐚 𝐥𝐚 𝐩𝐢𝐳𝐳𝐚 𝐝𝐢 𝐁𝐨𝐠𝐨𝐭𝐚̀ 𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐝𝐢 𝐍𝐚𝐩𝐨𝐥𝐢?
– Si nota. E come! Ho un cognato colombiano che ha aperto una pizzeria. Non c’è nulla da fare. Quando ci vado soffro. La differenza dipende dallo Spirito Santo. L’aria. Qui è rarefatta. Una cosa è l’impasto a livello del mare e una cosa è l’impasto a 3000 metri di altitudine. L’acqua. Quella di Napoli è miracolosa. Qui l’acqua non sa di acqua. Non so nemmeno io di che cosa sa. La farina. In Italia ne esistono vari tipi, Tipo 1, 0, doppio zero. Il pizzaiolo decide come regolarsi. L’Italia produce 2 milioni di tonnellate di grano. La Colombia non arriva a 7000 tonnellate. Importano da mezzo mondo. Come diceva Luca a Concetta in Casa Cupiello: …non è arte tua… Antonio, mi creda, qui il pane non lo sanno fare. Mi mancano le ciriole e gli sfilatini, Caffè sì. Quello è loro specialità. Anche l’arepa, una specie di pizzetta di mais. Se poi qui sulla pizza mettono pomodoro locale, tutto idroponico, cacio mozzarella, come la chiamano, molto grassa, allora la notte non si dorme.
• 𝐂𝐨𝐦𝐞 𝐞̀ 𝐚𝐩𝐩𝐫𝐨𝐝𝐚𝐭𝐨 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐚𝐬𝐚 𝐄𝐝𝐢𝐭𝐫𝐢𝐜𝐞 𝐒𝐨𝐥𝐟𝐚𝐧𝐞𝐥𝐥𝐢?
– Attraverso un agente letterario. Il romanzo, con altro titolo, Apologia di una Superstizione, superò la prima fase (2 in tutto) del primo concorso Io Scrittore, bandito dagli editori Mauri e Spagnol. Questo fatto convinse la signora Costantino a sottoporre il testo all’editore Marco Solfanelli.
• “𝐈𝐥 𝐩𝐢𝐭𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐍𝐚𝐫𝐧𝐢” 𝐞̀ 𝐬𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐮𝐧 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐡𝐚 𝐚𝐯𝐮𝐭𝐨 𝐮𝐧 𝐨𝐭𝐭𝐢𝐦𝐨 𝐬𝐮𝐜𝐜𝐞𝐬𝐬𝐨. 𝐒𝐞 𝐥𝐨 𝐚𝐬𝐩𝐞𝐭𝐭𝐚𝐯𝐚?
– A dire il vero, no.
• 𝐈𝐥 𝐫𝐚𝐜𝐜𝐨𝐧𝐭𝐨 𝐦𝐞𝐭𝐭𝐞 𝐢𝐧 𝐞𝐯𝐢𝐝𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐢𝐥 𝐝𝐢𝐟𝐟𝐢𝐜𝐢𝐥𝐞 𝐫𝐚𝐩𝐩𝐨𝐫𝐭𝐨 𝐭𝐫𝐚 𝐥𝐚 𝐫𝐞𝐚𝐥𝐭𝐚̀ 𝐞 𝐥’𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐚 𝐓𝐞𝐨, 𝐩𝐢𝐭𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐭𝐚𝐥𝐞𝐧𝐭𝐨, 𝐚 𝐬𝐛𝐚𝐫𝐜𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐥𝐮𝐧𝐚𝐫𝐢𝐨. 𝐄̀ 𝐮𝐧𝐚 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐯𝐞𝐫𝐚 𝐨 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐞̀ 𝐟𝐫𝐮𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐮𝐚 𝐟𝐚𝐧𝐭𝐚𝐬𝐢𝐚?
– L’uno e l’altra. Forse avendo frequentato l’ambiente dei pittori ho capito l’uso delle ‘velature’, di certi ‘chiaroscuri’, delle false prospettive. Nel romanzo Teo, e il suo collega Cecco, e anche Amina la modella nera, (che Teo definisce negra per meglio definirne la bellezza da ritrarre con Negritudine, e Teo non intingerà mai le setole nel nero assoluto ma solo con aggiunta di altri colori), sono riusciti bene come ritratto. Voglio dire sono immediati e rendono subito l’idea del loro carattere. Ho preso qualche spunto dalla realtà, dal vissuto di due amici artisti, vissuti in Sud America. Nel reale quotidiano gli artisti noti sono, o erano, inseriti nelle buone gallerie. Altri, meno noti, stentano, o hanno stentato, non per mancanza di bravura, ma perché non vi è stato o non vi è il modo, il tempo giusto per esporre o avere contratti con i galleristi. Pittura e scrittura spaziano in ambienti difficili, a volte ostili all’artista. La politica, a esempio, ha il suo peso. Un artista che si schiera da una parte o dall’altra, secondo me, è un artista dimezzato, come il famoso visconte.
• 𝐏𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐡𝐚 𝐚𝐦𝐛𝐢𝐞𝐧𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐥𝐚 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐚 𝐍𝐚𝐫𝐧𝐢?
– Volevo un’ambientazione dove acqua e piante abbondassero. Sono elementi che emanano luce vera, quella di cui ha bisogno ogni pittore per fissare lo spettro sulla tela. La Valnerina era l’ideale. Il luogo magico lo trovai tra Narni e Stifone. Da quelle parti il Ghirlandaio dipinse la sua Vergine. Teo nel museo Eroli ne rimane folgorato (anch’io, devo dire, lo fui). L’amico Spina, col fine di proporre un luogo, volle che visitassi la dimora dell’artista Alvaro Caponi. Il maestro mi accolse con molta cordialità. Il caso vuole che la sua dimora insista sui resti di quella che fu la villa di Pompeia Celerina, suocera di Plinio il Giovane. Tale fortuita coincidenza ha creato un particolare legame tra noi. Ora, in una parte della dimora, chiamata Domus Octavia, scorre acqua in abbondanza. Ci sono due mulini medievali ricostruiti, non funzionanti, ma ancora attraversati da torrenti d’acqua. Una volta inquadrato l’ambiente per Teo, mi fu facile comporre la trama del romanzo. La ex moglie la sistemai a Narni, nella casa che appartenne a Teo.
• 𝐂𝐡𝐞 𝐫𝐚𝐩𝐩𝐨𝐫𝐭𝐨 𝐜’𝐞̀ 𝐨𝐠𝐠𝐢 𝐭𝐫𝐚 𝐥’𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐞 𝐥𝐚 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐮𝐫𝐚?
– Entrambe sono creazioni, vibrazioni raccolte e a cui si è dato forma. Ossia Poiesis. Cito un motto di Orazio: Pictura ut poiesis. Ancora oggi possiamo dire che sono parenti tra loro e anche molto strette. Sono entrambe ekfrasi e vanno nei due sensi ma sulla stessa direzione, una con il lato iconologico e l’altra col lato semiotico. Si potrebbero immaginare, una poesia e un quadro, come cabine panoramiche di una stessa funivia, una in salita e l’altra in discesa, eppure con lo stesso compito: trasportare persone, meglio detto, atte le due poiesis a trasferire emozioni dall’esterno verso l’interno o viceversa dall’interno verso l’esterno usando segni differenti, la pennellata o la parola: nel primo caso mi riferisco alla pittura e nel secondo caso alla poesia o al romanzo e controllate dalle vibrazioni. La pittura può descrivere una poesia e la poesia può descrive una pittura. Si tratta di tradurre immagini in parole e parole in immagini. Se guardiamo indietro, nel neolitico vediamo come, ancora prima della scrittura, i segnali rupestri fossero: pittura, scultura e scrittura nello stesso tempo. (Ho curiosità. Chissà se Lacan li assimilerebbe ai 3 tempi dell’uomo, tempo reale, tempo simbolico, tempo immaginario). La separazione avvenne con la comparsa della scrittura ma il profondo legame regge anche se oggi prevale il messaggio estetico sul segno. Una domanda viene spontanea: la scrittura è arte o mestiere? Qualcuno provi a rispondere. “Per chi scrivi, perché scrivi, come scrivi, quanto scrivi, quando scrivi?” e via elencando. Le domande cessano quando si ristabilisce il motto di Orazio, appunto. Tacita tutti. Ci sarebbero, a seguire, l’interpretazione e la recitazione dei testi ma qui sconfinerei.
• 𝐂𝐡𝐢 𝐞̀ 𝐥’𝐚𝐮𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐩𝐞𝐫𝐭𝐢𝐧𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨?
– Il pittore Albertino Spina che mi fece anche conoscere il maestro Caponi. Due ottimi artisti ma che non sono pensati da me come ispiratori dei personaggi del romanzo. Sono affermati. La mascherina in copertina fissa un particolare del carnevale Narni. Dà l’idea della superficialità della moglie di Teo, da lei ridotto male. Devo confessare che mi sono divertito.
• 𝐃𝐮𝐫𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐥𝐞 𝐯𝐚𝐜𝐚𝐧𝐳𝐞, 𝐯𝐢𝐜𝐢𝐧𝐨 𝐚 𝐮𝐧 𝐚𝐧𝐭𝐢𝐜𝐨 𝐩𝐚𝐥𝐚𝐳𝐳𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝟏𝟔𝟒𝟏, 𝐝𝐨𝐯𝐞 𝐞𝐫𝐚𝐧𝐨 𝐫𝐚𝐟𝐟𝐢𝐠𝐮𝐫𝐚𝐭𝐞 𝐬𝐢𝐦𝐛𝐨𝐥𝐢 𝐞 𝐬𝐞𝐠𝐫𝐞𝐭𝐢 𝐝𝐢 𝐩𝐫𝐚𝐭𝐢𝐜𝐡𝐞 𝐚𝐥𝐜𝐡𝐞𝐦𝐢𝐜𝐡𝐞 𝐞 𝐞𝐬𝐨𝐭𝐞𝐫𝐢𝐜𝐡𝐞, 𝐥𝐞𝐢, 𝐜𝐨𝐧 𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐥𝐥𝐚𝐛𝐨𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐢 𝐑𝐨𝐝𝐨𝐥𝐟𝐨 𝐏𝐚𝐠𝐚𝐧𝐨, 𝐡𝐚 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨 “𝐔𝐧 𝐚𝐥𝐜𝐡𝐢𝐦𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐚 𝐕𝐢𝐥𝐥𝐞𝐜𝐨𝐥𝐥𝐞𝐟𝐞𝐠𝐚𝐭𝐨”. 𝐂𝐞 𝐧𝐞 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐩𝐚𝐫𝐥𝐚𝐫𝐞?
– Rodolfo Pagano è nato 97 anni a Villecollefegato, oggi Villerose, in provincia di Rieti. Ha grande esperienza letteraria. Laureatosi alla Federico II con Benedetto Croce, è stato segretario capo del Parlamento per l’intera vita lavorativa. Ha pubblicato testi sulla Valle del Salto. Ci siamo conosciuti prima per internet, poi in paese, una quindicina di anni fa. Un giorno mi chiese di scrivere un libricino sulle antiche tradizioni del paesino. Non vidi però nulla di interessante in ciò. La mia attenzione si fissò invece sul palazzetto dell’alchimista, sito di lato alla chiesa del paese. Anche in questo caso mi sorse una domanda muta, come per la ricerca della motivazione per il romanzo Plinio in Giovane. In quel caso: “se i cristiani non offendono Roma perché condannarli”. Davanti al palazzetto mi chiedevo: “ma che cosa ci fa qui? Chi ce l’ha messo e con quale scopo? Un alchimista in mezzo del nulla? Per quale miracolo? Per quale volontà umana?” Ne parlai a Rodolfo e restammo stupiti da quella semplice constatazione, direi da un’evidenza sconosciuta agli stessi paesani. Ecco la motivazione che giustifica la nascita del romanzo: la stessa apparizione di una piccola casa alchemica, precedente a quella di Rivo d’Utri. Uniche due testimonianze in provincia di Rieti. Scrivere un romanzo sull’ignoto costruttore alchimista è stato rischioso, dato il contesto paesano. Le critiche del piccolo posto potevano arrivarci da qualunque lato. Però Rodolfo è uno storico pignolo, preciso al millesimo di secondo e ciò è stato una buona garanzia per entrambi. Ci dividemmo i compiti. Rodolfo fece ricerche presso i padri teatini e io presso la curia reatina. Ci spartimmo i libri di alchimia da leggere per avere le informazioni utili per la formazione alchemica del personaggio principale, il chierico medico Lorenzo. Io componevo capitoli e Rodolfo tagliava per snellire. Ha tagliato davvero tanto. Abbelliva. Io ho descritto la Napoli del 600, lui il Cicolano di quell’epoca. È stata una nuova esperienza, un poco dura poiché caratterizzare i personaggi, gli stati d’animo da descrivere partendo da esperienze diverse non è semplice. Ma ce l‘abbiamo fatta e questo ci ripaga del lavoro speso.
• 𝐓𝐫𝐚 𝐢 𝐭𝐚𝐧𝐭𝐢 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐢𝐞𝐝𝐞 𝐜’𝐞̀ 𝐮𝐧𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐡𝐚 𝐦𝐚𝐢 𝐥𝐞𝐭𝐭𝐨?
– Che possedevo. Ho dovuto smontare la libreria per mancanza di spazio nel nuovo appartamento. A dire il vero ce ne sono stati parecchi. I più per disporre di poco tempo libero. Ne cito uno in particolare: Il pendolo di Foucault. Umberto Eco è stato un grande scrittore. Ne ho letti un paio dei suoi. Il pendolo non mi fa godere la lettura poiché il testo è costruito a scatole cinesi. Mi perdo, mi distraggo e devo tornare sulle pagine precedenti. Poi ci sono di mezzo i templari. E a me non suscitano molto interesse.
• 𝐈𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐫𝐚𝐩𝐩𝐨𝐫𝐭𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐥𝐚
𝐩𝐨𝐞𝐬𝐢𝐚 𝐪𝐮𝐚𝐥 𝐞̀?
– La poesia è il migliore mezzo di comunicazione in ogni nazione e con ogni lingua. Un verso mi aiuterebbe a esprimere qualcosa che detta con parole di uso corrente non avrebbe lo stesso significato. Una poesia permette di arrivare dove una lunga lettera fallisce. Da ragazzo ero capace di recitare a memoria “I Sepolcri”. Che cosa significa per me la poesia? Antonio, mi permetta di rivelare ciò che mi disse un amico giapponese a Tokyo, molti anni fa. “I poeti sono pazzi. Tu sei pazzo?” Un modo di pensare giapponese. Lì i pazzi scrivono poesie. Da noi Italia no. Si scrive poesia per svariati motivi. Leggere una buona poesia di un poeta che mette su una riga una mia stessa vibrazione, perché di vibrazioni si tratta, rimate o meno, mi fa godere di una condizione che io ho vissuto o mi fa desiderare di viverla. Se poi ho conosciuto il poeta, magari come amico, in particolare se è defunto, mi rende riflessivo, mi infonde forza.
• 𝐐𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐚𝐧𝐢𝐦𝐚𝐥𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐬𝐨𝐩𝐩𝐨𝐫𝐭𝐚?
– I topi, e i tarli come insetti. Entrambi roditori, entrambi distruttori di biblioteche. Qui i tarli, durante una mia prolungata assenza, hanno distrutto l’intera enciclopedia letteraria della Bompiani. 12 volumi. I pesciolini d’argento li reggo meglio. Li freno col bicarbonato di sodio. Pare che funzioni.
• 𝐀 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐨 𝐩𝐨𝐞𝐭𝐚 𝐬𝐢 𝐬𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐥𝐞𝐠𝐚𝐭𝐨?
– A Malcom Lowry. Forse per il comune passato di marinai. Capisco il senso di una sua poesia dal primo verso. E “Sotto il Vulcano”, spettacolare romanzo, lo tengo sotto il cuscino. Fa pure rima! Quasi.
• 𝐇𝐚 𝐦𝐚𝐢 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨 𝐩𝐨𝐞𝐬𝐢𝐞?
– Le poesie, dal mio punto di vista, non quello giapponese di cui parlavo anzi, si scrivono per amore, dolore, disperazione, o per una folgorante illuminazione della mente. Confesso che le ho scritte. In gioventù, da bordo, alla prima fidanzata scrivevo poesie anziché lettere. La necessità di comporre versi cominciò proprio a bordo. Nella solitudine, nel lungo distacco dalla madre terra. La composizione è stata la mia unica via di fuga, prima della prosa. Continuo a scrivere per fuggire da qualcosa, riempio un vuoto interno che mi porto dall’infanzia, colmo qualcosa che mi è mancato. O forse sono un esibizionista frenato da un senso o da un tic che non so bene definire. Ne ho scritte molte, anche erotiche che non esporrò mai. Dedicai una poesia a mio fratello mozzo sul vecchio transatlantico Caribia, morto ventenne per un male ritenuto incurabile una cinquantina di anni fa. Dedicai una poesia a mio padre, panettiere. La inviai nel 1981 al Premio Nazionale di Poesia indetto dai Lions di Milano. Quella volta la poesia ‘Piccioni di Porta Capuana’ vinse il primo premio. Ebbi una grande soddisfazione. A cinquant’anni ho smesso. Un poeta deve avere la forza della metamorfosi. Cambiare senza però perdere il valore e il senso dei suoi primi versi. Io questa forza sento di non averla più. Forse sono deluso da come sta andando il pianeta. O forse sono diventato davvero vecchio.
• 𝐒𝐞 𝐥𝐞𝐢 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐚 𝐩𝐨𝐞𝐬𝐢𝐚 𝐬𝐢𝐚 𝐢𝐥 𝐦𝐢𝐠𝐥𝐢𝐨𝐫𝐞 𝐦𝐞𝐳𝐳𝐨 𝐝𝐢 𝐜𝐨𝐦𝐮𝐧𝐢𝐜𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐢𝐧 𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐥𝐢𝐧𝐠𝐮𝐚 𝐞 𝐧𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐧𝐨𝐧 𝐩𝐮𝐛𝐛𝐥𝐢𝐜𝐚 𝐥𝐞 𝐬𝐮𝐞?
– In un lontano passato lo feci. DUE IN UN CASSETTO. Un volumetto le cui pagine furono condivise con un amico poeta. In dialetto napoletano. Poche copie. Edito dalla Laurenziana dei francescani di San Lorenzo Maggiore. A Napoli. Il secondo volumetto, ALGAS DE LUNA, bilingue, in Colombia. Ne furono stampate molte copie. Poesie di mare. Ma adesso siamo nel 21.mo secolo. La forza interna, l’energia ispirativa del poeta, non le trovo più.
• 𝐀 𝐜𝐡𝐢 𝐝𝐞𝐝𝐢𝐜𝐚 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐯𝐢𝐬𝐭𝐚?
– Ai miei lettori. Mi danno coraggio e speranza.