Intervista a Bruno Nacci

 

𝐋’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐯𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐌𝐚𝐫𝐭𝐞𝐝𝐢̀
𝗕𝗿𝘂𝗻𝗼 𝗡𝗮𝗰𝗰𝗶
𝑎 𝑐𝑢𝑟𝑎 𝑑𝑖 𝑇𝑜𝑛𝑖 𝐹𝑎𝑔𝑛𝑎𝑛𝑖
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• 𝐏𝐫𝐨𝐟𝐞𝐬𝐬𝐨𝐫 𝐍𝐚𝐜𝐜𝐢 𝐥𝐚 𝐫𝐢𝐧𝐠𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐚𝐯𝐞𝐫𝐦𝐢 𝐜𝐨𝐧𝐜𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐝𝐢 𝐝𝐢𝐚𝐥𝐨𝐠𝐚𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐧 𝐥𝐞𝐢. 𝐋𝐚 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚 𝐝𝐨𝐦𝐚𝐧𝐝𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐞 𝐟𝐚𝐜𝐜𝐢𝐨 𝐞̀ 𝐬𝐮𝐥 𝐩𝐮𝐠𝐢𝐥𝐚𝐭𝐨. 𝐂𝐨𝐦𝐞 𝐟𝐚 𝐮𝐧𝐨 𝐬𝐭𝐮𝐝𝐢𝐨𝐬𝐨 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐥𝐞𝐢, 𝐦𝐢𝐭𝐞 𝐞 𝐫𝐢𝐟𝐥𝐞𝐬𝐬𝐢𝐯𝐨, 𝐚𝐝 𝐚𝐦𝐚𝐫𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐬𝐩𝐨𝐫𝐭 𝐬𝐞 𝐬𝐩𝐨𝐫𝐭 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐜𝐡𝐢𝐚𝐦𝐚𝐭𝐨?
– Ho sempre amato la boxe che, come e più di tutti gli sport, rivela e forma il carattere dell’individuo, lo mette senza riparo davanti al suo vero avversario: se stesso. Inoltre da ragazzo l’ho praticata, anche se solo un po’ (era inconciliabile con gli studi, perché allora non si ammetteva che si potesse praticarla al di fuori dell’agonismo come oggi). A livello dilettantesco, senza soldi in gioco, è tutto tranne quella sfida tra gladiatori sanguinari che la maggior parte pensa: è tecnica, resistenza, scherma. La insegnerei nelle scuole.
• 𝐂𝐨𝐦’𝐞̀ 𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐥’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐞𝐬𝐬𝐞 𝐜𝐨𝐬𝐢̀ 𝐩𝐫𝐨𝐟𝐨𝐧𝐝𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐥𝐨 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐆𝐢𝐨𝐫𝐠𝐢𝐨 𝐕𝐢𝐠𝐨𝐥𝐨? 𝐂𝐡𝐞 𝐝𝐢𝐟𝐟𝐞𝐫𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐜’𝐞̀ 𝐜𝐨𝐧 𝐓𝐫𝐢𝐥𝐮𝐬𝐬𝐚?
– Giorgio Vigolo (di cui ho riedito dopo decenni due dei primi libri di prose, anche perché secondo me è molto più originale in prosa che in poesia), è l’autore più tedesco e romantico che abbiamo avuto, non a caso traduttore insuperato di Hölderlin, capace di scorgere e suscitare nelle pietre di Roma fantasmi inquietanti, con la magia di una lingua densa eppure dotata di forza narrativa molto superiore alla prosa d’arte di quegli stessi anni. Credo sia imparagonabile con Trilussa, non solo perché appartengono a due generazioni diverse e il secondo si esprime in romanesco, ma perché, entrambi coltissimi, c’è in Trilussa una vena satirica e proteiforme (Lucio Felici, curatore della bella edizione Mondadori, accenna alla dissimulazione di Torquato Accetto e al gusto delle maschere pirandelliano), che manca del tutto in Vigolo, lirico e visionario. Ecco, credo sia la visionarietà di Vigolo che mi ha colpito fin dall’inizio e la sua traduzione in una prosa non viziata dall’estetismo, che Savinio definiva “cadavere mascherato”.
• 𝐈𝐧 “𝐂𝐨𝐧𝐠𝐞𝐝𝐨 𝐃𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐒𝐭𝐚𝐠𝐢𝐨𝐧𝐢” 𝐥𝐞𝐢 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐯𝐞 𝟑𝟔𝟓 𝐫𝐚𝐜𝐜𝐨𝐧𝐭𝐢 𝐛𝐫𝐞𝐯𝐢𝐬𝐬𝐢𝐦𝐢, 𝐮𝐧𝐨 𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐠𝐢𝐨𝐫𝐧𝐨, 𝐬𝐮𝐝𝐝𝐢𝐯𝐢𝐬𝐢 𝐢𝐧 𝐪𝐮𝐚𝐭𝐭𝐫𝐨 𝐯𝐨𝐥𝐮𝐦𝐢 𝐜𝐨𝐧 𝐢𝐥 𝐭𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐬𝐭𝐚𝐠𝐢𝐨𝐧𝐢. 𝐂’𝐞̀ 𝐮𝐧 𝐦𝐨𝐭𝐢𝐯𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐜𝐮𝐢 𝐡𝐚 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐟𝐚𝐫𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐬𝐜𝐞𝐥𝐭𝐚?
– I racconti risalgono a una decina di anni fa, e non avrei mai pensato di pubblicarli se non se ne fosse occupato a mia insaputa un amico poeta, Mauro Sambi, a cui erano piaciuti. La scelta di dividere questi racconti in quattro volumi dedicati al ciclo stagionale è stata dell’editore ma fu da me condivisa, anche se, a posteriori, non credo sia stata una buona idea. Sembrava eccessivo un volume di quella entità, un volume che non si sarebbe potuto portare a letto….
• 𝐈 𝐫𝐚𝐜𝐜𝐨𝐧𝐭𝐢 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐟𝐚𝐭𝐭𝐢 𝐫𝐞𝐚𝐥𝐢 𝐚𝐜𝐜𝐚𝐝𝐮𝐭𝐢 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐮𝐚 𝐪𝐮𝐨𝐭𝐢𝐝𝐢𝐚𝐧𝐢𝐭𝐚̀ 𝐨 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐢𝐦𝐦𝐚𝐠𝐢𝐧𝐚𝐭𝐢?
– Io non credo nell’immaginazione creativa, se non nella forma di organizzazione della materia tratta sempre dall’esperienza. Naturalmente, per esperienza non si deve intendere la sola quotidianità, ma anche letture, notizie, film, racconti altrui. Qualsiasi libro, anche di matematica, è autobiografico.
• 𝐇𝐚 𝐦𝐚𝐢 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨 𝐮𝐧 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨 𝐟𝐢𝐧𝐢𝐭𝐨 𝐢𝐧 𝐦𝐨𝐝𝐨 𝐝𝐢𝐯𝐞𝐫𝐬𝐨 𝐝𝐚 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐚𝐯𝐞𝐯𝐚 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐚𝐭𝐨?
– Forse La quarta vigilia (2014), saggio biografico sugli ultimi anni di Blaise Pascal. Il materiale crescendo dettava i singoli capitoli, in questo senso imprevedibili se non nella successione cronologica. Per lo stesso motivo anche la ricostruzione di un fatto di cronaca dell’Ottocento da me ricostruito sui documenti d’archivio L’assassinio della Signora di Praslin (2000), che mi trascinò passo dopo passo in quell’abisso di sangue e smarrimento (e venne preso per un giallo!).
• “𝐈𝐧 𝐝𝐞𝐬𝐭𝐢𝐧𝐢. 𝐋𝐚 𝐟𝐚𝐭𝐚𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐝𝐞𝐥 𝐦𝐚𝐥𝐞” 𝐥𝐞𝐢 𝐚𝐟𝐟𝐞𝐫𝐦𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐢𝐥 𝐌𝐚𝐥𝐞 𝐞̀ 𝐜𝐚𝐩𝐚𝐜𝐞 𝐝𝐢 𝐫𝐨𝐯𝐢𝐧𝐚𝐫𝐞 𝐞 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐚𝐠𝐢𝐚𝐫𝐞 𝐯𝐢𝐭𝐞 𝐮𝐦𝐚𝐧𝐞 𝐞 𝐬𝐩𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐬𝐢 𝐚𝐧𝐧𝐢𝐝𝐚 𝐢𝐧 𝐮𝐨𝐦𝐢𝐧𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐜𝐨𝐧𝐝𝐮𝐜𝐨𝐧𝐨 𝐮𝐧𝐚 𝐯𝐢𝐭𝐚 𝐧𝐨𝐫𝐦𝐚𝐥𝐞. 𝐅𝐚 𝐥’𝐞𝐬𝐞𝐦𝐩𝐢𝐨 𝐝𝐢 𝐇𝐢𝐭𝐥𝐞𝐫 𝐜𝐡𝐞 𝐝𝐢𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐯𝐚 𝐜𝐚𝐫𝐭𝐨𝐥𝐢𝐧𝐞 𝐞 𝐏𝐚𝐥 𝐏𝐨𝐭 𝐜𝐡𝐞 𝐠𝐢𝐨𝐜𝐚𝐯𝐚 𝐚 𝐩𝐚𝐥𝐥𝐨𝐧𝐞.𝐒𝐮 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐢 𝐛𝐚𝐬𝐢 𝐬𝐢 𝐟𝐨𝐧𝐝𝐚 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐫𝐢𝐜𝐞𝐫𝐜𝐚 𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐭𝐞𝐦𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐢 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐚 𝐫𝐢𝐝𝐚𝐫𝐞 𝐝𝐢𝐠𝐧𝐢𝐭𝐚̀ 𝐚 𝐝𝐮𝐞 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧𝐚𝐠𝐠𝐢 𝐜𝐨𝐬𝐢̀ 𝐦𝐚𝐥𝐯𝐚𝐠𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐡𝐚𝐧𝐧𝐨 𝐜𝐚𝐮𝐬𝐚𝐭𝐞 𝐭𝐫𝐚𝐠𝐞𝐝𝐢𝐞 𝐢𝐦𝐦𝐚𝐧𝐢?
– Molti pensano che i grandi (o piccoli) malvagi siano dei mostri. Questa idea è tranquillizzante, come se ci mettesse fin dall’inizio al riparo dall’orrore della storia. Ma contiene tra l’altro una curiosa contraddizione: se il mostro è colui che ritiene tutti gli altri non umani, e come tali li manipola o massacra, allora anche noi, nella misura in cui riteniamo lui un mostro lo espelliamo dall’umanità, diventando a nostra volta dei… mostri. Ammoniva Nietzsche: «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro». Esecrare, maledire, mostrarsi disgustati per ciò che fanno i malvagi, è facile ma significa conoscere poco l’animo umano (compreso il nostro). La figura più inquietante di Destini, a cui ho dedicato molte letture e studi, è quella di Albert Speer, l’architetto del regime nazista, delfino di Hitler. Un uomo colto, di buona famiglia, gentile… ma venne preso dall’ubris del potere, passo dopo passo, fino a diventarne complice. E chi, mosso dall’ambizione, in circostanze simili non sarebbe quanto meno tentato di fare lo stesso? O vogliamo negare l’ambizione, i piccoli cedimenti, le piccole viltà e i compromessi di cui è fatta la nostra vita quotidiana?
• 𝐋𝐚 𝐦𝐞𝐝𝐢𝐨𝐜𝐫𝐢𝐭𝐚̀ 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐩𝐞𝐫𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨𝐬𝐚 𝐩𝐞𝐫 𝐮𝐧𝐚 𝐝𝐞𝐦𝐨𝐜𝐫𝐚𝐳𝐢𝐚?
– La mediocrità è l’acqua in cui le democrazie vivono necessariamente. Churchill diceva che per capire cosa sia una democrazia è sufficiente osservare chi è l’elettore medio! In questo senso, è più pericoloso chi guarda ai grandi orizzonti, chi vuole lasciare un nome nella storia o sogna di fondare imperi. Purché il senso comune (che Manzoni ammoniva a non confondere con il buon senso) non diventi una forma di oppiaceo, e non ingeneri quella assuefazione al regime democratico da cui metteva in guardia Piero Calamandrei quando diceva che la libertà è come l’aria, ci si accorge che c’è solo quando manca.
• 𝐏𝐞𝐫 𝐮𝐧 𝐚𝐮𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐞̀ 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐢𝐦𝐩𝐨𝐫𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐬𝐚𝐩𝐞𝐫 𝐚𝐬𝐜𝐨𝐥𝐭𝐚𝐫𝐞 𝐨 𝐟𝐚𝐫𝐬𝐢 𝐧𝐨𝐭𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐢𝐛𝐢𝐥𝐞?
– Lascio rispondere a Conrad: «Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo dalla finestra io sto lavorando?».
• 𝐂𝐢 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐝𝐢𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐦’𝐞̀ 𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐥’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐞𝐬𝐬𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐥𝐞 “𝐓𝐞𝐧𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐢 𝐬𝐚𝐧𝐭’𝐀𝐧𝐭𝐨𝐧𝐢𝐨” 𝐝𝐢 𝐆𝐮𝐬𝐭𝐚𝐯𝐞 𝐅𝐥𝐚𝐮𝐛𝐞𝐫𝐭?
– Ho sempre amato Flaubert, la sua appassionata dedizione all’arte, il suo disincanto nei confronti dell’esistenza. In anni lontani ho tradotto e curato per Garzanti Bouvard e Pécuchet, poi curato Madame Bovary per Giunti. La Tentation, forse l’opera più ardita di Flaubert, è la miniera di fantasmi e ossessioni a cui ha attinto lungo tutta la vita, un’opera scritta sapendo che sarebbe andato contro i canoni e il gusto dell’epoca (oggi nessuno pubblicherebbe un’opera simile, se l’autore non si chiamasse Flaubert). Non traducevo da una quindicina di anni, ma quando l’editore Carbonio mi ha chiesto se volessi tradurla, è stato più forte di me, come il richiamo di un antico amore…
• 𝐂𝐨𝐧 𝐢𝐥 𝐫𝐨𝐦𝐚𝐧𝐳𝐨 “𝐏𝐞𝐫 𝐬𝐞𝐠𝐮𝐢𝐫𝐞 𝐥𝐚 𝐦𝐢𝐚 𝐬𝐭𝐞𝐥𝐥𝐚 “(𝟐𝟎𝟏𝟕) 𝐧𝐚𝐬𝐜𝐞 𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐥𝐥𝐚𝐛𝐨𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐜𝐨𝐧 𝐋𝐚𝐮𝐫𝐚 𝐁𝐨𝐬𝐢𝐨 𝐞 𝐢𝐧 𝐬𝐞𝐠𝐮𝐢𝐭𝐨 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐯𝐞𝐭𝐞 “𝐋𝐚 𝐜𝐚𝐬𝐚 𝐝𝐞𝐠𝐥𝐢 𝐮𝐜𝐜𝐞𝐥𝐥𝐢” (𝟐𝟎𝟐𝟎) 𝐮𝐧 𝐫𝐨𝐦𝐚𝐧𝐳𝐨 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐜𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐨 𝐦𝐞 𝐞̀ 𝐚𝐭𝐭𝐮𝐚𝐥𝐢𝐬𝐬𝐢𝐦𝐨. 𝐂𝐢 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐫𝐚𝐜𝐜𝐨𝐧𝐭𝐚𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐞̀ 𝐧𝐚𝐭𝐚 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐜𝐨𝐥𝐥𝐚𝐛𝐨𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐞 𝐥’𝐢𝐝𝐞𝐚 𝐝𝐢 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐫𝐨𝐦𝐚𝐧𝐳𝐨?
– In realtà, io e Laura avevamo già scritto insieme due libri antologici: Quel poco di fede che mi porto dentro (2012), una raccolta di pagine di Luigi Pozzoli, straordinaria figura di sacerdote scrittore e amico, e Da un’altra Italia. 63 lettere, diari, testimonianze sul carattere degli italiani (2014). Il primo romanzo nasce dalla scoperta di Laura di una poetessa del Cinquecento, Chiara Matraini, e dalla sua idea di trarne una storia che fosse anche uno spaccato di vita dell’epoca; il secondo da una scarna notizia da me trovata in un libro sulla Rivoluzione francese. Ci aveva colpito (non stupito) come anche nella leggendaria epopea rivoluzionaria si nascondessero episodi legati all’avidità e allo sfruttamento, ma soprattutto volevamo rappresentare quello che accade in un piccolo gruppo di “prigionieri” che in realtà non hanno nessuna voglia di fuggire dalla loro prigione dorata, perché fuori li attende la morte. Disegnando i rapporti reciproci, improntati alla viltà o alla generosità e all’amore, in un mondo contracezionario in cui domina la paura e l’istinto di conservazione.
• 𝐒𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐨 𝐥𝐞𝐢 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐢𝐥 𝐦𝐨𝐧𝐝𝐨 𝐜𝐮𝐥𝐭𝐮𝐫𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐨𝐠𝐠𝐢 𝐞̀ 𝐜𝐨𝐬𝐢̀ 𝐦𝐞𝐝𝐢𝐨𝐜𝐫𝐞?
– In ogni epoca domina la mediocrità, solo in casi eccezionali si scorgono le vette, o comunque solo dopo che quell’epoca è passata. Una particolarità della nostra epoca, mi sembra essere però quella già espressa da Musil: «Nel mondo di ieri non c’erano meno stupidi che in quello di oggi, ma nel mondo di ieri a nessuno sarebbe venuto in mente di dire che uno stupido era un uomo intelligente o di valore».
• 𝐇𝐚 𝐦𝐚𝐢 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐯𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐧 𝐫𝐨𝐦𝐚𝐧𝐳𝐨 𝐝𝐢 𝐟𝐚𝐧𝐭𝐚𝐬𝐜𝐢𝐞𝐧𝐳𝐚?
– Mai
• 𝐐𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐢𝐟𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐜𝐚𝐫𝐚𝐭𝐭𝐞𝐫𝐞 𝐞𝐥𝐢𝐦𝐢𝐧𝐞𝐫𝐞𝐛𝐛𝐞?
– Lutero osservava che la confessione ha un grosso limite: con tutta la buona volontà nessuno di noi confessa il peccato più grave, per il semplice motivo che non lo considera tale!
• “𝐋𝐚 𝐯𝐢𝐭𝐚 𝐚 𝐩𝐞𝐳𝐳𝐢” 𝐩𝐮𝐛𝐛𝐥𝐢𝐜𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐚𝐥𝐥𝐞 𝐄𝐝𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐒𝐨𝐥𝐟𝐚𝐧𝐞𝐥𝐥𝐢 𝐞̀ 𝐥𝐨 𝐬𝐩𝐞𝐜𝐜𝐡𝐢𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐯𝐢𝐭𝐚 𝐝’𝐨𝐠𝐠𝐢?
– Su La vita a pezzi (2018) lascio parlare un critico severo, Cesare Cavalleri, quando su Avvenire scrisse: «Sono storie dolenti, vite di rimpianti, fasci di luce che improvvisamente illuminano angolini coscienziali che si era preferito dimenticare».
• 𝐈 𝐬𝐮𝐨𝐢 𝐥𝐚𝐛𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐝𝐢 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐮𝐫𝐚 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐬𝐢 𝐬𝐯𝐢𝐥𝐮𝐩𝐩𝐚𝐧𝐨?
– Si parte dai testi dei maestri, si cerca di affinare la sensibilità nella lettura, si discute e alla luce di questo, senza mai definire modelli, prontuari, regole per diventare scrittori più o meno bravi, leggiamo insieme gli elaborati dei partecipanti alla ricerca di soluzioni migliori.
• 𝐏𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐚𝐟𝐟𝐞𝐫𝐦𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐢𝐧𝐧𝐨𝐜𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐩𝐫𝐨𝐛𝐚𝐛𝐢𝐥𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐜’𝐞̀ 𝐧𝐮𝐥𝐥𝐚?
– I racconti raccolti in Dopo l’innocenza (2019) esplorano storie un po’ meno crude del libro precedente, in parte si riferiscono alle illusioni che ci facciamo sulla realtà (progetti, sogni, desideri), in questo senso l’innocenza è uno stato primitivo, originario, destinato prima o poi a scontrarsi con ciò che siamo e sono gli altri. L’ultimo racconto, Salomon, scritto in realtà negli anni Novanta, è quasi un apologo in cui teologia ed erotismo si intricano in modo tale che il protagonista, un rabbino, prima inconsapevole del suo delirio teologico, alla fine diventa ciò di cui gli altri lo accusano o sospettano.
• 𝐓𝐫𝐚 𝐢 𝐬𝐮𝐨𝐢 𝐚𝐬𝐩𝐢𝐫𝐚𝐧𝐭𝐢 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐜’𝐞̀ 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐜𝐮𝐧𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐡𝐚 𝐭𝐚𝐥𝐞𝐧𝐭𝐨?
– In realtà faccio pochissime ore all’anno di questi laboratori, ma sono sufficienti per veder emergere quasi sempre delle personalità, delle potenzialità. Il talento però, come diceva Picasso, vuol dire otto ore di lavoro al giorno. Non si può giudicare da qualche elaborato, anche brillante, se il talento sarà coltivato o meno. E questo è il punto. Talento come predisposizione, è possibile, come nello sport, ma se non viene messo alla prova, se non impegna la propria vita, allora…
• 𝐈𝐥 𝟏𝟓𝟎° 𝐚𝐧𝐧𝐢𝐯𝐞𝐫𝐬𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐦𝐨𝐫𝐭𝐞 𝐝𝐢 𝐀𝐥𝐞𝐬𝐬𝐚𝐧𝐝𝐫𝐨 𝐌𝐚𝐧𝐳𝐨𝐧𝐢 𝐞̀ 𝐩𝐚𝐬𝐬𝐚𝐭𝐨 𝐪𝐮𝐚𝐬𝐢 𝐢𝐧𝐨𝐬𝐬𝐞𝐫𝐯𝐚𝐭𝐨 𝐫𝐢𝐬𝐩𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐚 𝐚𝐧𝐧𝐢 𝐟𝐚 𝐢𝐧 𝐜𝐮𝐢 𝐬𝐢 𝐭𝐫𝐚𝐬𝐦𝐞𝐭𝐭𝐞𝐯𝐚𝐧𝐨 𝐢 𝐏𝐫𝐨𝐦𝐞𝐬𝐬𝐢 𝐒𝐩𝐨𝐬𝐢 𝐢𝐧 𝐭𝐞𝐥𝐞𝐯𝐢𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞? 𝐂𝐨𝐦𝐞 𝐬𝐞 𝐥𝐨 𝐬𝐩𝐢𝐞𝐠𝐚?
– Manzoni è uno scrittore molto complesso che troppo sovente viene rimpicciolito (fin dall’inizio, Giuseppe Giusti: «Autor di un romanzetto ove si parla di promessi sposi…), facendone un’immaginetta devozionale per beghine. Al contrario, il suo romanzo, certo la cosa più grande che ha fatto, mette in scena un mondo che col passare del tempo non ha perso niente, e niente ha temere in confronto a Balzac o Hugo, per non parlare del suo presunto modello: Walter Scott. Due anni fa ho parlato a Roma della peste nei Promessi sposi. Argomento quanto mai delicato nel clima del Covid, e alcuni, alla fine dell’incontro, mi hanno detto che non avrebbero mai creduto di ritrovare nelle pagine del romanzo tante osservazioni in grado di aprire gli occhi sul presente, sul funzionamento delle nostre menti in circostanze simili, sia dal punto di vista politico che psicologico e morale. Con Borges dico volentieri: altri si vanteranno dei libri che hanno scritto, io di quelli che ho letto. In particolare proprio dei Promessi Sposi e della Colonna infame, due capisaldi della nostra cultura, che ho letto per la prima volta nel 1958. Avevo dieci anni! E non ho mai smesso di rileggerli.
• 𝐐𝐮𝐚𝐥 𝐞̀ 𝐬𝐭𝐚𝐭𝐚 𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐢𝐧𝐮𝐭𝐢𝐥𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐡𝐚 𝐟𝐚𝐭𝐭𝐨?
– Domanda insidiosa, perché suggerisce che abbia poi fatto cose utili. E allora, per mettermi la coscienza in pace dico: perdere tempo con chi non meritava nemmeno un minuto.
• 𝐄̀ 𝐩𝐫𝐨𝐩𝐫𝐢𝐨 𝐜𝐨𝐧𝐯𝐢𝐧𝐭𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐞𝐭𝐚̀ 𝐝𝐢 𝐨𝐠𝐠𝐢 𝐜’𝐞̀ 𝐭𝐚𝐧𝐭𝐚 𝐬𝐨𝐥𝐢𝐭𝐮𝐝𝐢𝐧𝐞 𝐞 𝐭𝐚𝐧𝐭𝐨 𝐛𝐢𝐬𝐨𝐠𝐧𝐨 𝐝𝐢 𝐚𝐬𝐜𝐨𝐥𝐭𝐨?
– Per tre anni ho fatto il volontario in una associazione di Ascolto Telefonico. Le voci anonime che sbucano dal buio delle nostre città, chi sussurrando, chi gridando, chi implorando, chi bestemmiando, chi rivelando inconfessabili perversioni o crimini, chi smaniando di trovare qualcuno, mi hanno insegnato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che siamo una società, soprattutto quella delle grandi città, di persone torturate dalla solitudine, anche quando viviamo in famiglia o con altri. Ciascuno murato in se stesso col proprio fardello di incomprensioni, rancori, dolori, ambizioni sbagliate, desideri frustrati, e tutti, assolutamente, bisognosi di raccontare questa solitudine, queste amarezze, queste tristezze che preferiamo rubricare sotto la voce medica di depressioni.
• 𝐀 𝐜𝐡𝐢 𝐝𝐞𝐝𝐢𝐜𝐚 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐬𝐜𝐚𝐦𝐛𝐢𝐨 𝐝𝐢 𝐫𝐢𝐟𝐥𝐞𝐬𝐬𝐢𝐨𝐧𝐢?
– A mia moglie, che si meritava qualcosa di più.

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